Il 30 aprile 2000 ci salutava Luciano, lasciandoci un’eredità di intenti che come singoli e come Associazione cerchiamo di portare avanti.
di Renato Frisanco
A 22 anni dalla sua morte Luciano Tavazza ri-emerge come figura che rivela, con l’esemplare coerenza del suo modo di essere e di operare, di credere e di testimoniare, di pensare e di agire, dissonanze virtuose non solo rispetto al suo tempo, ma incredibilmente e per non pochi aspetti anche a quello contemporaneo. Eccone alcuni.
Rispetto alla cultura dell’”io”, che già affiorava con la ventata neo-liberista che si è affermata dopo la caduta del muro di Berlino, Tavazza era decisamente per il “noi”, per l’agire insieme, in gruppi e non singolarmente, in reti e non in modo sparso, in contesti organizzativi democratici e aperti e non autocratici e chiusi.
Rispetto alla cultura dell’autoreferenzialità, egli contrapponeva il senso e il fine dell’agire volontario, la sua visione di società (per cui “pensare in grande e agire in piccolo”) e la prefigurazione del cambiamento, rispetto a cui il gruppo, l’organizzazione e il leader erano al servizio. Questo richiede la contestualizzazione dell’operato dei gruppi nel territorio (noto lo slogan “socializzare il territorio”) per creare comunità, a partire dall’esercizio della funzione “antenna” dei bisogni dei cittadini, rappresentando questi il vero faro della loro azione, non le convenzioni, i bandi, le concessioni delle istituzioni interessate a utilizzare il volontariato per “fare di più con meno”.
Antidoto alla cultura dell’autoreferenzialità intesa anche come isolamento operativo è quella delle alleanze (per lui una “strategia”) e della collaborazione con gli altri attori del territorio, dalle istituzioni pubbliche al profit. Collaborazione che per il volontariato nasce perché soggetto responsabile e attore di un’autonoma iniziativa per l’interesse generale. Per Tavazza nessun soggetto della società é in grado da solo di generare risposte idonee a soddisfare i problemi complessi della società del nostro tempo.
Rispetto alla cultura divisiva, che si rivela oggi anche nel modo di concepire e affrontare la guerra e la pace, egli era un infaticabile facilitatore dell’incontro di culture, fedi, posizioni diverse, ma per il volontario doveva prevalere la dedizione alla causa rispetto all’opzione ideologica, religiosa, partitica ecc, utile come rinforzo motivazionale, non come vincolo condizionante. Anche chi, come lui, aveva una fede religiosa poteva avere “una marcia in più” ma non un merito suppletivo. In un’epoca di crisi delle ideologie, per Tavazza contano i valori, e la Costituzione con i suoi principi fondamentali metteva tutti d’accordo. E poi la formazione, lo ripeteva spesso, è l’antidoto alle dissonanze operative dentro le organizzazioni e il carburante di un approccio alla condivisione, l’unico possibile per chi opera in una proiezione altruistica o nell’ottica dell’interesse generale.
Rispetto alla dimensione dell’essere e del fare tiepido, timido, conservativo di chi ritiene che “il mondo va così” ed è meglio essere omologati che frustrati, vi è il ricordo dell’impegno solido di Tavazza che lo portava a sacrificare quasi tutto il suo tempo libero, a operare con costanza, coerenza e coraggio nell’affrontare i problemi e nell’interagire con le istituzioni. Alzando la voce se era il caso, provocando proteste, denunce, avanzando proposte legislative o programmatiche, lavorando per aiutare i più deboli ad essere protagonisti e capaci di autotutela. Oggi si sarebbe adoperato anche per stare dalla parte di chi con impegno civico opera per salvaguardare ed espandere i “beni comuni”. Però bisognava partire da una analisi dei problemi, dall’individuazione delle cause che li generano, da un approccio progettuale carico di esiti attesi in linea con l’orizzonte di una “terra permessa” e senza contaminarsi in negativo con l’accaparramento di convenzioni o rimanendo incagliato in relazioni di dipendenza con gli enti finanziatori.
Rispetto alla cultura dello status quo, che per il volontariato può significare accontentarsi di gestire servizi Tavazza contrapponeva quella del cambiamento, vero e proprio must del volontariato, con la sua valenza etica di fermento così che la sensibilizzazione dei cittadini diventasse partecipazione e la partecipazione cambiamento, rigenerazione della società. E’ l’approdo al volontariato come “religione civile”. I problemi di oggi, massimamente rappresentati dall’acuirsi delle disuguaglianze sociali, richiedono il massimo di esaltazione delle due prerogative essenziali del volontariato: l’essere testimonianza concreta e assumere la dimensione politica.