La quarantena nei “bassi”del Rione Sanità di Napoli. Il racconto di Suor Lucia che di quei vicoli conosce le storie di un estrema dignitosa povertà.
di Suor Lucia con Ela
Non riesco a portare il peso di tanta gente che chiede da mangiare, da pagare l’affitto.
Mi pesano sul cuore le parole di lamento. Immagini mai viste prima, qui, pur conoscendo la povertà.
Dopo qualche giorno dall’inizio della quarantena, scelgo di muovermi per strade e entrare nelle abitazioni. Ho decine di numeri telefonici e indirizzi, inviati da tantissimi messaggi supplichevoli di bambini, mamme, papà.
Resta fissa nel mio cuore la voce dei bambini: “suora, non c’è nulla da mangiare in casa”. Mi sollecita a camminare e a entrare in contatto con famiglie e case conosciute o totalmente impreviste. Penso che sia bene avviare un percorso più familiare, di amicizia. Mi faccio accompagnare da un’amica col desiderio di condividere quanto sta accadendo.In fondo a una viuzza che interseca una stradina che abbiamo percorso 1000 volte, c’è una porticina mai vista: in una stanza senza finestre e quasi senza mobili, vive una deliziosa giovane coppia, che aspetta il primo bimbo. R. è scultore, con le sue mani plasma la creta in opere d’arte, lei è piena di emozione e si accarezza il gonfiore della pancia. Al momento nessuno dei due lavora, ma esprimono fiducia.
Un altro vicolo. Sulla seconda rampa dei gradini, in fondo, a rasentare il muro, c’è una piccola porta. Non l’avevo mai vista, eppure questo è uno spazio da me frequentato. Qui vive una famiglia con due bambini. Il papà stende i panni sullo stendino fuori la porta, dentro la mamma ha già lavato e pettinato i piccoli, che si muovono curiosi alla nostra vista. Disegnano, un fustino di detersivo è stato trasformato in porta pastelli. Il papà lavorava sul mare, è un pescatore, ma adesso tutto è fermo.
Su per una salita cerco il n 18, busso e qualcuna mi dice di attendere un attimo, perché la scaletta angusta e ripida può essere pericolosa per me, ora anziana. Ma io salgo in fretta e mi trovo su un pianerottolo di mezzo metro con una porticina della mia altezza, circa un metro e mezzo. Resto sulla soglia, una bimba serena gioca su un cassettone mentre la nonna lava e riordina. Io vedo solo una striscia di camera, l’altra parte è nascosta dietro una tenda e un armadio. La bimba con una bambola in mano si mette a cantare. Mi coglie di sorpresa e sento che i mondi dei bambini sono immensi e forse ciò che per me è soffocante per loro è una reggia.
Vado su un’altra strada, frequentata da me più volte al giorno. Cerco l’abitazione n. 42, ma quando arrivo, mi dico “non è questa”, torno indietro e ricomincio a guardare attentamente, mi sento spaesata. E’ come se quel labirinto di strade e vicoletti, da me conosciuto perfettamente, mostrasse adesso un altro volto. Telefono e la giovane donna indiana, di cui avevo sentito parlare per le estreme necessità, mi aspetta sulla strada vicino alla porta. A passo rapido la raggiungo e rimango stupita. Le chiedo: “ma qui non abita una signora malata?” .“ Sì, abita lei e suo marito, io con mio marito e la bimba, e un altro signore”. Mi manca il fiato, perché sempre dalla soglia avevo intravisto questo basso scuro, senza finestrella, perché più volte avevo raggiunto la signora malata, per quel legame creatosi di fronte alla malattia. Non sapevo che vivessero in sei, in uno spazio così angusto e angosciante.
Incredibile riuscire a pensare diversamente ciò che ormai si dà per scontato per le esperienze già acquisite.
A pochi passi da qui, da un balcone mi sento chiamare. E’ N, un bambino di I media, mi aveva scritto un messaggio: “sotto casa mia c’è una famiglia con una bambina più piccola di mia sorellina e non ha da mangiare”. Mi fermo, entro nel cortiletto scuro, con i mattoni sconnessi e mi arrampico sulla scaletta dai gradini molto alti. Al primo pianerottolo si apre una porta lunga e stretta e si affaccia una dolcissima signora, dietro il marito con la bimba. Fanno un passo indietro per farmi entrare, ma io sgomenta resto lì a balbettare poche sillabe.
Ancora sulla stessa strada, di mattina, entro in un ampio cortile, che di sera ammiro molto per le ampie arcate e le luci che illuminano il palazzo. In un basso abita una famiglia amica, la signora mi aspetta alla porta, silenziosamente mi fa entrare. Vicino all’entrata ci sono tre posti letto ancora da riordinare. Una persona si alza e scompare, l’altro posto letto è ancora occupato dal figlio che è rimasto avvolto dal lenzuolo. Abbiamo un legame di antica di amicizia, l’ho visto crescere. Penso e ripenso: nessuno potrebbe immaginare un giovane dal portamento tenero ma orgoglioso, sempre in perfetta armonia nell’abbigliamento e nello stile, possa dormire sul cassettone ricavato da un vecchio divano, scomodo e troppo corto per lui. Chiudo la bocca difronte a queste situazioni diffuse e tocco con mano quale prezzo sono costretti a pagare gli immigrati.
Ore 10,00, busso al basso di via T n 5. Si affaccia un giovanissimo papà e m’invita ad entrare: sul lettone c’è la mamma 18enne, che scambia tenerezze con il suo bambino. E’ l’icona vivente del Natale. Nella sua povertà e nella sua gioia.
Più avanti entro in un altro basso, i genitori mi aspettano, la bambina che ho visto nascere è autistica. Ora dorme tranquilla, l’emozione diversa in tutti e tre segnala cammini del cuore e una comunanza di pensieri e di sentimenti.
Anche questa mattina sono salita lungo una scaletta seghettata. Cercavo 100 gradoni, n.10. I signori a cui ho chiesto che erano su un pianerottolo da mezzo metro, mi hanno risposto: qui è tutto n 10. La notizia è passata di bocca in bocca e si è affacciato il papà che cercavo. Ha finito i 6 mesi di arresto domiciliare a casa di sua mamma, mentre sua moglie con i bambini è andata a vivere a casa della propria mamma. Sono giovani e hanno tutti i propositi di un lavoro e di una vita onesta. Ora hanno bisogno di aiuto per sostenere l’avvio fiducioso di un nuovo inizio.
Pochi minuti fa sono andata in un palazzo fatiscente, in una lunga strada del mio quartiere. Pensavo di trovare una mamma con un bambino appena nato, ma ho trovato cinque giovani famiglie indiane ammucchiate. Nella casa gli spazi sono angusti, separati da tende, è difficile muoversi mobili vecchi e molte valigie, segno del viaggio pieno di speranza verso il nostro paese. Una giovanissima tra altre mamme mi ha presentato il bambino di due mesi. Ho il fiato sospeso. Sotto ci sono altre 7 famiglie, di età leggermente più matura.
Chi mi conosce esce a salutarmi e ciascuno dice qualche parola sul proprio disagio. Sempre con grande dignità e rispetto si accumulano storie di malattie, povertà, mancanza di lavoro e di prospettive. Incredibile ai miei occhi e alla mia immaginazione. Sto parlando di una realtà sconosciuta su una strada vicina e obbligatoriamente frequentata da me.
In questa stessa strada, abita una signora che conosco da tempo, sempre sicura di sé e ben vestita. Poi per un po’ non l’ho vista più. Adesso scopro dietro questa apparenza e dietro questa assenza, un dramma. La donna è stata in prigione, ingiustamente accusata. E scopro che ha un figlio disabile, quasi nascosto nella sua casa e nessuna risorsa per mantenere la sua famiglia. Devo andare anche da lei, che mi ha appena insegnato l’inganno delle apparenze, la necessità di andare più fondo.
Riprendo i vicoli più oscuri, quelli che si intrecciano tra loro con scale, traversine, tra palazzi incombenti pieni di gente. I bassi, a volte chiusi, a volte con persone sedute a guardare la strada, si susseguono, ognuno con la sua storia e la sua identità. Entriamo in uno dove vivono tre adulti e un neonato. La giovane mamma sorride, le servono pannolini, vestitini e in casa nessuno lavora più.
Alla fine di un vicoletto cieco c’è un cancello. L’entrata scura si apre su un cortile piccolo, pieno di donne e bambini. Sul cortile affacciano case misere, ricavate nella struttura di un palazzo abbandonato. Lo spazio aperto dà un respiro nella situazione di quarantena, ma è anche evidente che la socialità è organizzata gerarchicamente. Una giovane donna con tre bambini piccoli chiede con insistenza vestiti, i bambini che circolano nel cortile chiedono affetto e attenzione. Al fondo del cortile, dietro una porta sempre chiusa, vive una famiglia intimorita e pudica, con due bambini, sempre al buio. Questo cortile, nascosto, su cui affacciano i buchi neri di un palazzo decrepito, ci indica il degrado a cui sono abbandonati gli ultimi.
Continuo a camminare e ogni tanto mi fermano persone che mi chiedono soldi. “Sono napoletano, ho cinquant’anni e non ho da mangiare”. Occhi mi guardano dalle porte dei bassi con una domanda che si ripete: “Si fermerà anche da noi? Conosce la nostra miseria?”.
Una delle mie passeggiate termina con immagini di sollievo. Alla fine di una salita, entriamo in un bel cortile di un palazzo antico, sembra di campagna. Il palazzo di tre piani è abitato interamente da persone che vengono dallo stesso paese. Si scambiano aiuto e amicizia. Una di loro ha un giardino con i nespoli carichi di frutti, alberi di arance e limoni. La ragazzina che siamo andate a trovare dice che spesso anche lei e la sua famiglia possono andare in giardino, al sole e all’aria. E la madre, con un bel sorriso rassicurante, ci racconta che la signora da cui fa i servizi non l’ha licenziata, come hanno fatto tanti altri appena iniziata la quarantena, ma lw ha detto di restare a casa e continua a pagarla.
E’ mia delizia camminare e interrogare le strade, le abitazioni che sfuggono allo sguardo più attento e non accontentarmi mai del centro dei luoghi. Nel cammino di questi giorni ho incontrato quattro bambini autistici, accarezzo con lo sguardo i loro volti, chiudo la bocca e penso alla durezza del tempo.
Mi sento grata alla vita che mai chiude i suoi ampi orizzonti e ci invita a convenire là dove stiamo portando i problemi e le inquietudini della vita di tanti e a disegnare storie di amicizia. Per questo sentire mi piace sostenere l’affido in vicinanza e in lontananza, che è il prendersi a cuore la situazione di una famiglia e accompagnarla, lasciarsi accompagnare con immaginazione e bellezza.
“Mi accarezzava dalla soglia Il profumo della casa”.